IL PENDOLO

Guido Mina di Sospiro, L’albero, Rizzoli 2002, pagg. 291, 14 euro

Id. Il fiume Rizzoli 2003, pagg. 372, 15 euro

recensione di Alessandro Sansoni

E se un albero fosse qualcosa in più di una riserva di legname? O un fiume non fosse soltanto un corso d’acqua navigabile ed una risorsa idrica da sfruttare per l’irrigazione dei campi o la messa in funzione di una turbina idroelettrica? E se fosse possibile andare oltre la bellezza del fusto delle foglie e dei frutti di quell’albero ed al di là dello studio analitico e meravigliato dei processi di fotosintesi dei vegetali, oppure non limitarsi al piacere estetico ed estatico di un paesaggio solcato da un maestoso corso d’acqua… Insomma se fosse possibile liberarsi dei pregiudizi e delle sovrastrutture ideologiche dello scientismo illuminista e prosaico che contraddistingue noi moderni e recuperare quella verità di cui gli antichi erano consapevoli, ovvero che in ogni manifestazione della Natura è possibile cogliere una scintilla di divino e quindi un’anima e una vita, cosa potrebbero dirci gli animali, le piante, i laghi, i fiumi, le montagne, in breve gli altri ospiti che abitano la Madre Terra?

A queste domande cercano di rispondere i due romanzi pubblicati da Guido Mina di Sospiro, ai quali seguirà presto un terzo, volto a completare la trilogia, che avrà per titolo Il vulcano.

Mina di Sospiro ha 44 anni ed è nato a Buenos Aires, rampollo di un’antica famiglia cremonese. E’ cresciuto a Milano e ha frequentato l’università di Pavia. A vent’anni si è trasferito negli Stati Uniti, prima a Los Angeles, poi a Miami. Lì ha studiato musica e cinema presso la University of Southern California. E’ un viaggiatore ed un lettore instancabile e curioso, caratteristiche riscontrabili facilmente nei suoi romanzi.

La sua prima opera, che come la seconda è, nella versione originale, scritta in inglese, tratta la storia di un tasso millenario, narrata in prima persona. Il protagonista (ma sarebbe più giusto dire la protagonista, perché è un tasso di genere femminile) non è un albero qualunque, ma addirittura la principessa, che poi diverrà superba e terribile regina, di un bosco d’Irlanda. Le vicende sono scandite dai suoi ricordi, in cui si intrecciano l’introspezione psicologica, continua e profonda come solo quella di un vegetale può essere, ed i rapporti amichevoli o conflittuali che essa intrattiene con le altre specie di piante e di animali che popolano la sua foresta.

Scopriamo così che anche un albero è capace di acquisire conoscenze che a mano a mano affluiscono nella sua coscienza – ma mai ex-novo, bensì come recupero di una memoria innata ed atavica che deve disvelarsi – ed è altresì in grado di amare, soffrire, deprimersi ed ingaggiare una guerra all’ultimo sangue contro un gruppo di querce che ne insidiano il primato e che sottraendoglielo metterebbero a rischio il naturale equilibrio gerarchico su cui si fonda la vita del bosco.

Sullo sfondo, ma via via sempre più presente e centrale, l’essere umano, la sua storia e le sue attività, di cui il tasso si fa spettatore prima divertito, poi preoccupato. Dagli onori che le tributano gli antichi druidi alla furia antropocentrica dei monaci cristiani che la devastano, rischiando di ucciderla, fino alla totale deforestazione dell’isola attuata dal colonizzatore inglese, che tre secoli fa rese l’Irlanda una prateria.

Eppure, nonostante la tracotante furia distruttrice della cultura tecnicista degli uomini degli ultimi secoli, la speranza non può morire. Alle terribili parole contenute in quel libro che ha cambiato la storia del mondo, alterando il corretto rapporto uomo-natura (Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra e sottomettetela: e dominate i pesci del mare, gli uccelli dell’aria e ogni cosa vivente che si muove sulla Terra [Genesi 1, 28]), sembra rispondere Claire, una bimba che parlando col papà lo avverte che gli alberi “di notte parlano tra loro (…) e anche durante il giorno”  e che riesce a percepire che la regina della foresta “mi dice che si sente sola e che vorrebbe avere più compagnia” (pag. 218-219).

Con Il fiume Mina di Sospiro passa dall’elemento Terra, cui gli alberi sono costitutivamente legati, all’elemento Acqua. La tecnica narrativa rimane la stessa, ma stavolta a raccontare le sue memorie è il Po, che comincia a parlare ricordando di quand’era solo una Goccia di Pioggia e dice: “Non mi aspettavo il tempo. Nessuno di noi se lo aspettava. Nulla durava, così non conoscevamo né un inizio né una fine. Eppure il tempo avvenne, e io ebbi inizio”. Chi meglio di un fiume potrebbe interrogarsi sul tempo “che scorre” e cercare di comprenderlo?

Ma il Po occupa nell’ambito della gerarchia del cosmo un posto assai più rilevante di un tasso regnante, per quanto esso sia potente. Il Po infatti è un dio vero e proprio, perché è dotato della facoltà di “creare”, se così si può dire. La pianura alluvionale che egli attraversa è infatti opera sua e dei suoi affluenti tributari e vassalli, che la hanno formata nel corso dei millenni.

L’antico Bodincus (nome col quale lo chiamavano i celti) interagisce con ninfe, gnomi, angeli, dei, oltre che con i pesci, i quadrupedi, gli uccelli e le piante che abitano le sue sponde. I suoi amori e i suoi umori determinano le periodiche inondazioni che lo contraddistinguono.

L’uomo non sembra avere il potere di imbrigliarlo e di razionalizzare la sua attività: gli ingegneri romani ne canalizzano le acque per meglio impiegarne le risorse idriche nell’agricoltura, dragano la sua foce, ma falliscono e per secoli le popolazioni della pianura padana costruiranno le loro città a debita distanza dal suo corso.

Ma l’homo faber della modernità lo aggredisce coi suoi rifiuti inquinanti, col cemento, con argini sempre più alti: le ninfe col tempo abbandonano il loro antro, dove per secoli si sono lasciate avvincere dalle effusioni del fiume, il Piccolo Popolo degli gnomi scompare alla vista, i boschi vengono sradicati per far posto ai cereali. L’umanità ordinante ed illuminata non è più capace di vedere oltre la presunta realtà empirica e nella sua cecità ha scacciato ciò che sfuggiva al suo sguardo. Ma il Po resta al suo posto, ancorato alla Madre Terra di cui è inquilino. Continua ad esondare, ancor più pericoloso, mentre compatisce l’uomo, perché rammenta l’oracolo della sibilla cumana: “L’ira degli dei nei confronti degli uomini non sarà un segno di passione, ma dimostrerà solamente l’incapacità degli uomini di partecipare alle illuminazioni divine”.

A metà strada tra Calvino e Jean Giono, i racconti di Mina di Sospiro si propongono come una fiaba moderna, semplice, ma ricca di contenuti filosofici, come ad esempio Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Allo stile gradevole, anche se a volte un po’ ingenuo nell’oggettiva difficoltà di escogitare un linguaggio adatto ai personaggi narranti, lo scrittore ha saputo associare erudizione botanica ed idrogeologica, saperi esoterici, personali riflessioni sugli uomini e la loro storia, qualche stucchevole ed eccessivo ammiccamento al sesso debole, ma soprattutto un incoraggiante inno alla vita in tutte le sue forme ed espressioni.