© MB, 22 novembre 2002
Guido Mina di Sospiro, allievo e amico di Ernest Lehman, lo sceneggiatore preferito di Hitchcock; pupillo di Christopher Sinclair-Stevenson, giudicato da molti il miglior editor vivente in Inghilterra, Guido Mina di Sospiro ha passato gli ultimi dodici anni asserragliato nel suo studio-bunker di Miami, a scrivere, oppure in giro per il mondo, dall’Irlanda all’Ecuador, dall’Israele all’Inghilterra, e via dicendo, per compiere ricerche per i suoi romanzi. L’anno scorso, “Come uno sciamano, sono uscito dalla caverna per divulgare le mie rivelazioni,” asserisce non senza un pizzico d’ironia. Ma aggiunge: “Basta sostituire a “caverna”, “studio”; a “rivelazioni”, “ispirazioni”, e l’analogia non è più così assurda.” Infatti, l’anno scorso è stato pubblicato il suo libro The Story of Yew negli Stati Uniti, Inghilterra e Irlanda, ottenendo grande successo, anche di critica. Persino l’Enciclopedia Britannica si è scomodata, riportandone una favorevolissima nella sua versione on-line. La Rizzoli ha da pochi giorni pubblicato l’edizione dello stesso, dal titolo: L’ albero. In Italia per promuovere il libro, incontriamo l’autore a Roma.
Che cos’è, in poche parole, il suo romanzo L’albero?
L’autobiografia di un albero di duemila anni. La regina della foresta, un esemplare femminile di tasso.
Come mai l’ha scritto in inglese?
Vivo negli Stati Uniti da ventidue anni. Ho frequentato là l’università; là ho lavorato e mi sono sposato; là sono nati i nostri figli. Ho scritto diversi romanzi, tutti in inglese. Detto questo, ci tengo ad aggiungere che ho collaborato alla traduzione de L’albero, lavorandovi ininterrottamente per tre mesi. Ne sono molto soddisfatto: ritengo di avere creato un secondo originale.
Come ha fatto a penetrare così verosimilmente sotto la scorza e all’interno dell’albero, e allo stesso tempo a utilizzare uno stile così lirico?
Non è stato facile. L’origine remota è un progressivo allontanamento dai miti della urbanità. Dalle città emana tutto: potere, leggi, politica, finanza. Nelle città viviamo, in gabbia. Dalle città abbiamo eliminato la natura. Tutto ciò che ci circonda è fatto da mani umane. Non riuscivo più a digerire tutto questo. L’antropocentrismo del XX secolo è stato soffocante, e in ultima analisi ha portato al degrado, allo sfacelo e al nichilismo. L’antidoto? La natura, e in particolare gli alberi. Gli alberi, vede, sono considerati in genere afoni, inanimati e alla stregua di automi di pompaggio. Poco più di macchine vascolari. Io, invece, volevo dimostrare l’opposto, scrivendo un libro “dendrocentrico”, in cui fosse l’albero stesso a raccontare, in prima persona. Ma questa stessa espressione mostra la miopia della nostra lingua umana: il libro, infatti, è in… primo albero, non in prima persona. Ad ogni modo, vi hanno collaborato i massimi botanici a naturalisti al mondo durante una ricerca durata oltre un decennio fra America e Isole Britanniche. Ciò spiega la dimestichezza con il regno vegetale, e l’accuratezza scientifica di tutti gli episodi che descrivo. Il tutto, però, come lei dice giustamente, reso in uno stile poetico. Anni di labor limae me lo hanno consentito. Nel tradurre il libro dall’inglese mi sono reso conto che ogni parola era indispensabile. Tutte quelle superflue erano state eliminate a più riprese.
Il capitolo dedicato alla guerra, e quello dedicato all’amore, sono davvero straordinari.
Grazie. Nelle mie ricerche scoprii che il regno vegetale è tutt’altro che bucolico, con buona pace di Virgilio. Gli alberi non solo possono fare la guerra ai propri vicini strangolandone le radici, o ombreggiandoli in modo da impedire che fotosintetizzino, ma anche ricorrendo alla allelopatia. E cioè, l’inibizione/soppressione della crescita a opera di tossine. Emettendo questi fitormoni, un albero è in grado anche di uccidere gli alberi vicini. Una vera e propria guerra chimica. Ciò mi ha dato lo spunto per il settimo capitolo, che narra appunto di una guerra durata tre secoli fra le querce usurpatrici e le specie sempreverdi. Per scriverlo con cognizione di causa andai a trovare, nel New Hampshire, il leggendario Alex Shigo. Illustre “chirurgo d’alberi”, ne ha sezionati 16.000, studiandoli poi al microscopio. A lui si deve la rivoluzionaria “nuova biologia dell’albero”. Il concetto di base è la “compartimentalizzazione”: gli alberi sopravvivono finché riescono a compartimentalizzare le infezioni. Discutemmo per giorni (va detto che quando si stufa di parlare, quest’omone sfila un clarinetto dall’astuccio e si mette a suonare per un buon quarto d’ora!) e poi scambiammo lettere per mesi. Le piante, anche se prive di un cervello, mi sembravano sempre più esseri intelligenti.
E il capitolo dedicato all’amore da cosa è scaturito?
La regina della foresta, dopo oltre tre secoli di guerra contro le querce, le ha distrutte tutte. Ha vinto la guerra, ma è logorata, e sola. Persino i suoi alleati la temono. Mi sembrava che il contrappunto di un capitolo imbastito sull’amore fosse ideale. Vede, i tassi sono alberi dioci, vale a dire che come noi, hanno gli organi sessuali su piante femminili o maschili. In altre parole: il maschio ha i fiori; la femmina, i frutti. Alla fine della guerra, la Regina si apre al polline di un albero specifico. Il vento lo trasporta, ma l’albero vive lontano da lei. Non può vederlo. Perciò desidera di potere staccarsi da terra, e volare dal suo amante. Non lontano da lei, vede due tassi, maschio e femmina, che si abbracciano da secoli. E, sotto i suoi rami, un monaco di un monastero locale e una focosa principessa che infuocano la notte d’amore. Confesso d’essermi ispirato per questa scena a Lucrezio. Nel suo poema, descrive tali passioni per poi denigrarle. Io… mi fermo alla prima fase. L’amore è tutto.
Non si scopre fino quasi alla fine che l’albero cresce in Hibernia, cioè nell’odierna Irlanda. Perché ha scelto un tasso irlandese?
Premessa: in America le scuole di scrittura creativa da cinquant’anni hanno un assioma, anzi un dogma: “Write about what you know”, scrivi di ciò che conosci. Siccome questo dogma lo insegnano a laureandi, e siccome in America la cultura media è scarsa, questi scrivono dell’unica cosa che conoscono, cioè la loro famiglia, puntualmente “disfunzionale”. Ne escono libri barbosi che però vengono glorificati dalla critica letteraria—d’altra parte tali critici hanno frequentato le stesse scuole! Io invece applico l’assioma opposto: scrivi di ciò che non conosci. Quindi, ricerca, ricerca e poi ancora ricerca. Ma non ricerca barbosa da accademico. La ricerca deve diventare… cerca, come quella per il Sacro Graal; la cerca, ossessione; l’ossessione, mania. Perché la conoscenza, il sapere, non è altro che mania pura. Durante la mia cerca maniacale per l’albero giusto – volevo infatti un albero che crescesse nella realtà – conobbi una moltitudine di antichi tassi, in Inghilterra, Galles, Scozia, senza però trovare esattamente ciò di cui ero in cerca. Forse non sapevo io stesso che cosa stessi cercando. Era come voler comporre un puzzle avendone pochissimi tasselli e sopratutto senza avere la foto di ciò che si voleva comporre. Tentai, come ultima risorsa, la carta irlandese. Scrissi ad Aidan Brady, direttore dei Giardini Botanici di Dublino. La risposta fu cortese, ma, tanto per cambiare, poco incoraggiante. “Gli inglesi hanno abbattuto tutti i nostri alberi. Dubito che in Irlanda cresca un albero più vecchio di mille anni. Apprezzo i suoi sforzi, ma …” Però c’era un poscritto: “S’è interessato al tasso di Killarney?”
Killarney, se non sbaglio, è in Irlanda.
Sì. Il tenue pretesto del poscritto nella lettera mi spinse a volare a Dublino per conoscere Aidan. Accogliente e gentile, mi mise a disposizione diversi suoi collaboratori, e mi scrisse due lettere di presentazione. Una per il curatore del Parco Nazionale di Killarney, nel sud-ovest del Paese; l’altra per Alan Mitchell, il più grande esperto d’alberi al mondo. Arrivai in treno, di sera. Scesi fra la pioggia. A Killarney, scoprii, piove sempre, e quando non piove, diluvia. Oltre 5.000 millimetri di pioggia all’anno ne fanno il luogo più piovoso d’Europa. Mi sembrava che ai pochi passanti che intravidi spuntasse muschio dal naso e crescessero licheni sulle guance. Eppure… Mi svegliai il giorno dopo sotto un sole radioso. Non c’era una nuvola in cielo. Era marzo, ma faceva caldo. In paese c’era una palpabile euforia. Me ne spiegarono il perché senza che lo chiedessi: “Ha piovuto ininterrottamente per cinque mesi. Finalmente un giorno di sole!” In bicicletta mi addentrai nel Parco, bellissimo, situato fra laghi e montagne. Sapevo che il tasso di Killarney mi aspettava dentro il chiostro di una diroccata abbazia francescana; sapevo anche che questa era la mia ultima chance. Confesso che tirai dritto, ed evitai l’abbazia. Vi tornai, però, poco dopo, accompagnato da Cormac Foley, il curatore del Parco… E seppi subito che, sì, finalmente avevo trovato ciò che cercavo da anni. L’albero in sé era maestoso, già lodato da W.M. Thackeray nel suo Irish Sketch Book del 1842. Ma tutto il contesto mi parlava eloquentemente.
Come?
A poche centinaia di metri, il “tasseto” più grande d’Europa, un posto dall’ombra fittissima in cui crescono solo tassi e, sotto di loro, uno spesso tappeto di muschio; poco più in là, a Dunloe Castle, due tassi, maschio e femmina, che si abbracciavano da secoli, quelli che appunto avrei usato nel capitolo sull’amore; oltre le colline, Serpent Lake, in cui San Patrizio aveva annegato l’ultimo serpente d’Irlanda. Inoltre Cormac mi aveva rammentato lo strano destino della IX Legione Hispana, di stanza in Britannia, misteriosamente svanita dalla storia. Che avesse tentato di conquistare l’Hibernia, cioè l’odierna Irlanda? La mia storia, intuivo, s’era scritta da sé. E in più, siccome perdurava il bel tempo, Cormac mi scorrazzò per tutto il Kerry, e mi presentò Danny Cronin. Un arzillo nonagenario, Danny è una miniera di folclore irlandese. A forza di pinte di Guinness, mi raccontò decine di leggende che trascrissi fedelmente. Alcune di esse avrebbero trovato spazio nel mio libro. L’Irlanda mi aveva stregato.
L’albero ha veramente duemila anni?
Questo non posso rivelarlo per non sciupare il piacere di chi leggerà il libro. Ma la questione della longevità del tasso è di primissima importanza. Vede, ciò che mi aveva mosso inizialmente era stato un trafiletto letto in un trattato inglese: “Già vegetava 250 milioni di anni fa, prima della comparsa dei dinosauri, molto prima della comparsa degli uomini. Un fossile vivente, virtualmente inalterato da sempre.” Che cosa aveva da dirci questo monumento vivente? Perché era sopravissuto fino ai nostri giorni? A che scopo? Mi misi a corrispondere con direttori di orti botanici e di musei di storia naturale, in Inghilterra e America. Le risposte non erano incoraggianti. Obbiettavano, questi scienziati, principalmente all’età del mio tasso narrante: duemila anni. Nessuno di loro era convinto che l’albero potesse vivere così a lungo. Ma il tasso presenta non poche anomalie di crescita: mentre il nucleo centrale del tronco marcisce, strati di nuovo tessuto inglobano il legno morto. Quindi il tasso si rinnova dall’esterno all’interno. L’effetto collaterale è che nessuna singola parte è vecchia come l’intero albero. La datazione al carbonio, perciò, è impossibile, così com’è impossibile contare gli anelli di crescita.
Insomma, occorrevano prove scientifiche.
Esattamente. Non si sapeva come ottenerle. Finché Alan Micthell mi fece conoscere Allen Meredith, visionario Gallese senz’alcun titolo di studio, ma invasato e inarrestabile. Come me, per anni aveva compiuto ricerche sui tassi. A differenza di me, aveva trovato un mentore in David Bellamy, popolarissimo naturalista, e nella sua Conservation Foundation. Dopo avermi posto sotto esame per capire se il mio amore per il tasso fosse genuino quanto il suo, Allen decise di confidarmi un segreto. Andammo assieme a Tandridge, nel Surrey. Qui aveva scoperto un tasso vecchissimo, a otto metri di distanza dalla chiesa locale, che ha fondamenta sassoni. Nella cripta si poteva chiaramente vedere che la volta di pietra era stata costruita dai Sassoni attorno alle radici dell’albero. Alan Mitchell tornò con noi “sul luogo del delitto”, e dopo non poche ispezioni, si arrese all’evidenza. Non senza lasciarsi scappare un sorriso, disse: “Sì, mi sembra il caso di rivalutare questo albero.” E diffuse la notizia nella comunità scientifica mondiale: il tasso di Tandridge aveva dai 2000 ai 2.500 anni.
L’uomo, inevitabilmente, trova il suo albero, la regina della foresta…
Sì. Questa non fu necessariamente una data funesta. I druidi celtici, infatti, veneravano il tasso, che era il loro axis mundi. Va detto en passant che nella civilissima Roma antica, nel foro, il centro della vita cittadina, il fico sacro di Romolo fu venerato fino ai giorni dell’impero, e l’avvizzire del suo tronco bastava a spargere il panico in città. Tornando all’Irlanda, con l’avvento del Cristianesimo, per merito o colpa di San Patrizio, la nuova religione impone nuovi luoghi di culto: non più boschetti sacri, ma costruzione fatte interamente dall’uomo—chiese. Papa Gregorio Magno, tuttavia, insisteva perché i suoi zelantissimi missionari incorporassero ai Vangeli le credenze locali, e così il tasso venne relegato di fianco alle chiese, e nei loro camposanti, come simbolo di immortalità, essendo sempreverde e molto longevo. Queste non sono buone notizie per il tasso. La regina si diverte di più quando un accattone miserabile, un certo Spinadipesce, arriva ai suoi piedi. La regina lo ispira a staccare uno dei suoi rami e farne un arco. Gli archi lunghi di tasso erano la bomba atomica del medio evo: gli unici capaci di scagliare frecce che perforavano corazze di ferro. L’arco di Robin Hood era, naturalmente, di tasso. E questo Spinadipesce è proprio Robin Hood, ma alle prime armi. Qui a Roma ci tengo a dire che la canzone Spinadipesce, di Francesco de Gregari, mi ha in parte ispirato questo capitolo.
Ma da questa parentesi in poi, la situazione della Regina della Foresta, e di tutti gli alberi in Irlanda, peggiora drasticamente.
Ahimè, sì. All’incivilimento umano corrisponde la decadenza arborea.
Eppure ha ancora speranza nell’uomo…
Ci sono state eccezioni, a cominciare da quella notevolissima dell’Uomo Verde, un archetipo che da noi in Italia è reso dall’Homo Silvaticus. Vede, l’albero della sapienza, l’albero della vita, è sprofondato con noi nella realtà. Così sosteneva, fra gli altri, Ezechiele. La postilla che c’è nella Genesi circa la superiorità della razza umana è un’aggiunta dell’ultima ora. L’effetto deleterio di queste convinzione è stato il nostro assoluto antropocentrismo, che ha dato vita alla desertificazione, sia dall’anima sia del mondo. Le leggi naturali sono spietate. Un albero deve produrre, nel corso di una lunga vita, milioni di semi per vedere crescere pochi successori. In un mondo migliore, da ogni seme spunterebbe un albero. Senza concorrenza. Le leggi eterne della natura in effetti non sono eterne. Sono, bensì, abitudini. Tutto ha avuto un’origine. Il nostro mondo è una storpiatura del mundus imaginalis. L’uomo occidentale ha dissacrato il mondo, e nulla ci salverà a meno che non resuscitiamo il luminoso che è implicito nella natura, invece di annientarlo.
L’albero è una metafora per tutti gli alberi. Dopo aver letto il suo libro, è impossibile non rivalutarli e vederli con occhi nuovi.
In Italia, a causa del famigerato giardino all’italiana, c’è la sadica consuetudine di potare gli alberi come se fossero fette di salame. Non sono potature, sono mutilazioni. Ogni anno, decine di migliaia di platani, olmi, ecc. subiscono questo destino. Talvolta muoiono. Invece, bisognerebbe cominciare sin dalle scuole elementari a far piantare alberelli ai bambini. Milioni e milioni di alberi andrebbero piantati ogni anno. Molti ed enormi i benefici che se ne trarrebbe: aria pura; consolidamento del terreno; maggiore mantenimento di acqua; maggior varietà e volume di fauna, ecc.
Il libro parla per sé, eppure ha voluto includer un compendio alla fine. Come mai?
Avevo scritto il compendio per direttori di musei di storia naturale, botanici, biologi e parrucconi assorti. Non riuscivo ad ottenere la loro attenzione con una storia. “Noi uomini di scienza non leggiamo storie.” Allora pensai di scrivere qualcosa nel loro linguaggio: note a fondo testo, citazione ponderose, ecc. Abboccavano, e poi, finalmente, leggevano la storia in sé, ironicamente con gusto. All’editore il compendio è piaciuto, e così è stato stampato nel libro.
Lo raccomanderei ai lettori dai dodici anni in poi.
Grazie! Sì, ho ricevuto lettere di stima da lettori soddisfatti, di ambo i sessi, di tutte le età, da ragazzini a ottuagenari. La botanica è incorporata, direi quasi mascherata, nella storia. Ma è proprio la storia l’elemento trainante.
Sotto Natale, la domanda viene spontanea. Può L’ albero essere inteso come l’albero di Natale?
Perché no? Natale, in inglese, non si dice solo Christmas, ma anche Yuletide, il tronco che si faceva bruciare nell’Europa pre-Cristiana settentrionale in coincidenza con il solstizio d’inverno. E tale albero era il tasso, in inglese “yew”, da cui “yule-tide”, con “tide” che intende dire “stagione”. Il libro dà speranza. Non è un libro orsachiotto, è tanto ambivalente quanto la vita. Eppure di recente ho ricevuto una e-mail da una giovane lettrice del Missouri. Mi confidava di essere stata depressa, anche perché una sua cara amica si era suicidata. Ma poi, non sapeva bene perché nemmeno lei, nel leggere L’ albero aveva ritrovato la voglia di vivere. Ho sempre sostenuto che un libro debba cambiare la vita del lettore; mai mi sarei immaginato che potesse salvarla.
S’interessa di politica?
Fra le tante brutte invenzioni umane, la politica deve essere una delle peggiori. Inoltre, mi annoia a morte.
Lei proviene da un’antica famiglia aristocratica.
Sì, di Cremona, anche se sono nato a Buenos Aires e cresciuto a Milano.
Eppure ha lasciato l’ Italia per andare a vivere negli Stati Uniti.
Da ragazzo ero il protégée di Micklos Rozsa, un compositore ungherese che viveva a Hollywood, dove scriveva colonne sonore, per Ben Hur, El Cid, Double Indemnity, ecc. Invece a Santa Margherita Ligure componeva musica “seria”. Io avevo girato un film, Heroes & Villains, proiettato fra l’altro alla Cineteca Nazionale di Milano. E avevo studiato orchestrazione con Antoine-Pierre de Bavier, l’allievo preferito di Furtwängler. Rozsa e io diventammo amici. Aveva insegnato composizione alla University of Southern California, dopo Schönberg. Feci tutti gli esami per accedere alla università, e vi approdai, ventenne. Ernest Lehman e tanti altri maestri mi insegnarono i trucchi del mestiere, specialmente nel costruire storie. La transizione allo scrivere romanzi avvenne per avere maggiore libertà. Ma, si sa, molti romanzi diventano films. Comunque, mia moglie e i nostri figli parlano e scrivono l’italiano, e non escludo di tornare in questo Paese a vivere.
I prossimi progetti?
L’albero è il primo volume di una trilogia. Si tratta di un nuovo genere letterario, vale a dire: memorie di inanimalia notevoli. Il secondo volume sono le memorie di un fiume, il terzo di un vulcano. E poi c’è la mia altra produzione, che definisco teoandrica, cioè con personaggi umani, ma sempre un afflato divino. I miei libri continueranno a uscire in inglese, e mi sa che io continuerò a collaboratore alle traduzioni in italiano. Doppio parto, doppia fatica, doppia soddisfazione.
A cura di Isabella Dolazza
L’albero, Rizzoli, 14 Euro